Nella vita di tutti i giorni si tende con facilità ad usare i termini “giudizio”, “critica”, “consiglio”. Si usa ad esempio dire, confrontandosi con un amico «questo è solo un mio consiglio, agisci come più ritieni opportuno». Accade però che spesso ci si risenta se la persona con la quale ci si è confrontati non segue alla lettera il nostro “consiglio”. Come fare allora per capire se un consiglio ricevuto è disinteressato o piuttosto rappresenta la volontà dell’altro di giudicare, criticare o controllare le nostre azioni? Analizziamo singolarmente i vari termini.
Il dizionario Rusconi fa corrispondere alla voce ‘consiglio’ la definizione di suggerimento, ed è suggestiva l’ipotesi di alcuni studiosi che consigliare derivi da “con-sedeo”, ovvero sedere insieme. Emerge qui l’idea di un confronto tra pari, in cui nessuno tenta di valicare l’altro, una sorta di tavola rotonda in cui ci si confronta per venirsi incontro ed aiutarsi. Il famoso detto «la notte porta consiglio», fa capire come il consigliare non possa essere affidato all’arte dell’improvvisazione; richiede tempo per rifletterci su. Credo che sia necessario basarsi su tre condizioni imprescindibili, affinché questo avvenga nel modo più efficace possibile:
- diffidare dalle “scannerizzazioni” dell’ultimo momento: è importante infatti che chi consiglia abbia una conoscenza base del suo interlocutore. Il consiglio è infatti un vestito da cucire sulla persona che lo richiede, tenendo conto del suo carattere e del contesto
- essere consapevoli del fatto che la scelta che noi riteniamo più giusta, potrebbe non rivelarsi realmente efficace per l’altro, per questo spesso bisogna procedere per tentativi
- il consiglio è sempre richiesto dalla persona interessata. Esso non può essere dato senza esplicita richiesta, altrimenti assumerebbe sfumature più simili a una critica. Inoltre, specie se relativo a scelte di vita importanti, esso può essere dato solo da persone con cui si ha un legame affettivo particolarmente forte.
Il termine “critica” ha un’etimologia che lo lega a quello di giudizio, dal greco «kritikè», giudico. Il dizionario online Treccani alla voce ‘criticare’ accosta i significati di biasimare, trovar da ridire su qualche cosa. In linea di massima ed a differenza del consiglio, infatti, la critica non è rivolta ad un’azione da compiere, ma ad una già compiuta. Tuttavia, la critica può assumere un’accezione positiva in determinati casi, che di seguito enumero, ricordando come solo tenendo conto di queste due condizioni il criticare non consisterà in un condannare l’altro, ma in un prenderlo per mano
- se chi critica si assume la responsabilità di “addomesticare” il criticato, ovvero di prendersene cura affiancandolo nei momenti di difficoltà e più in generale nel cammino di crescita
- se chi critica ammette la possibilità di un confronto con il criticato, ascoltandone le ragioni e ammettendo quindi un dialogo.
Il giudizio è senza dubbio lo strumento che più mira ad annientare l’altro, distruggendolo e stigmatizzandolo a vita in una determinata categoria. Chi giudica non ammette ripensamenti e non permette un confronto, che è spesso ciò che ci consente di conoscere meglio l’altro. A tal proposito, Carl Rogers affermava che la tendenza a giudicare gli altri è la più grande barriera alla comunicazione e alla comprensione. Giudicando si è fermi sulle proprie “sentenze”, escludendo qualsiasi possibilità di cambiamento del giudicato. Per questo è importante, solo per fare un esempio, che anche in un contesto scolastico, si parli di valutazione e non di giudizio. Il giudizio tende a cristallizzare l’altro nella sua condotta attuale. La valutazione ne offre un resoconto, non escludendo però miglioramenti futuri. È suggestiva la citazione di Swami Prajnanapada secondo cui «giudicare è un’illusione, perché, se dovete giudicare, vi servite della vostra scala di valori. Dietro al giudizio si cela l’idea che siamo tutti identici». Quindi, il giudicare diventa un modo per condannare il diverso da me, denotando come difetti tutte quelle caratteristiche appartenenti solo all’altro. Spesso si è posta l’attenzione sul gesto del dito puntato contro l’altro. Si tratta di un gesto duplice, perché mentre si indica qualcuno che è di fronte a noi, al tempo stesso si rivolgono tre dita verso se stessi. Ho l’impressione che al dito puntato verso l’altro corrisponda un proiettile che uccide la diversità, mentre le tre dita puntate verso se stessi uccidono il giudicante in ben tre aspetti:
- come persona sociale, in quanto giudicando ci si pone ad un livello superiore rispetto all’altro, annullando la possibilità di legami stabili con l’altro (anche Madre Teresa diceva che chi giudica non ha tempo per amare)
- come essere comunicante, perché giudicando si rompono gli schemi etici di qualsiasi tipo di dialogo
- infine come essere diverso, dato che annientando la possibilità di diversità nell’altro, in fondo si annienta anche la propria diversità.
Credo che oggi sia estremamente difficile non giudicare. Purtroppo, spesso, lo si fa istintivamente ed è l’azione che ci risulta più spontanea. L’immedesimazione potrebbe invece essere una buona soluzione. Da essa, infatti, scaturisce un esame di coscienza «e se fossi io al suo posto? Come agirei?» Solo così, comprendendo l’altro, e abbracciandolo simbolicamente in tutta la sua diversità, si può ambire a sedere tutti insieme alla famosa “tavola rotonda”.
Irene Camisa