Dio chiama e invita con la seduzione della gioia di vivere, mai della fuga dalla debolezza o dalla morte. Ci chiama ad affrontare la morte con le armi dell’autenticità e di ciò che è durevole, nella verità dell’amore liberatore e trasformatore, che si è manifestato pienamente nel crocifisso risorto. E posso dire di averlo sperimentato – e per questo lo propongo per la meditazione dalla prospettiva della Pasqua cristiana, per la passione e morte di Gesù di Nazaret, presente nella storia – nell’esperienza di persone che hanno dovuto affrontare la morte in un modo unico: veder morire cioè i propri figli. Questa esperienza ha fatto vedere loro la vita e il mondo in modo completamente diverso. Quando l’uomo affronta la verità della vita e accetta la morte, nascono criteri di vita del tutto nuovi. Due amici professori, colleghi all’Università dell’Estremadura, che ho conosciuto meglio dopo la morte del loro unico figlio e ai quali mi unisce un cammino e un processo di lutto nel quale mi hanno permesso di entrare, mi hanno invitato tempo fa ad accompagnarli un giorno all’associazione Por ellos. Dopo la morte del figlio, hanno trovato in questa associazione un luogo di vita e di consolazione unica; ci sono genitori che hanno visto morire i propri figli, alcuni molto di recente, altri mesi o anche anni fa; insieme condividono cammino, esperienze e vita. Le loro situazioni personali, psicologiche, economiche, culturali, politiche, religiose ecc. sono molto diverse, ma hanno tutti in comune il fatto di aver perso un figlio amato, e il loro cuore è spezzato dalla stessa esperienza. Li unisce il dolore. Volevano che partecipassi a qualche incontro e che in qualche modo esponessi il pensiero cristiano sulla morte umana e sulla risposta credente a questo evento. Sono rimasto colpito dall’incontro, perché ho avuto l’opportunità di mettere in discussione molte delle spiegazioni che in genere offro in classe sul tema della morte e della speranza cristiana. È stata una grande esperienza personale: portavo i miei foglietti per condividere la lezione e sono tornato avendo imparato io la lezione.
Avevo pensato molto a come porre la cosa, vista la situazione e la pluralità di situazioni e atteggiamenti. Avevo portato qualche appunto, ma poi si è imposta la realtà: bisognava partire dalla vita ed essere diretti. Tre punti mi sembravano fondamentali, e in essi volevo essere particolarmente ricettivo: il concetto di Dio che hanno ricevuto e con il quale vivono; l’atteggiamento davanti a Dio (Giobbe e la crisi di Dio); Cristo crocifisso e i segni di resurrezione che hanno scoperto e stanno scoprendo dalla morte dei figli. In base alle loro risposte, e partendo da questa esperienza dolorosa d’amore, vi offro questo decalogo della vita sorto dall’esperienza della morte. Come segni del Risorto, i genitori feriti d’amore mi hanno detto e mi hanno regalato questo tesoro nelle loro espressioni:
Di fronte a tutte le differenze che abbiamo a livello sociale, economico e politico, siamo tutti molto fragili; in pochi minuti possiamo rimanere senza niente, e tutto ciò che sembrava qualcosa svanisce. Vivere sapendo che siamo tutti fragili e che tutti abbiamo bisogno degli altri è fondamentale. Quando ci amiamo nella fragilità, troviamo una ragione per essere felici. Non fuggire dalla fragilità, abbracciala in te e negli altri e unisciti per essere forte: “Spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce” (Filippesi 2, 7-8).
Prima mi addoloravano alcune cose, quelle molto personali, ora di fronte al dolore non riesco a passare oltre, qualsiasi dolore mi interpella e voglio stargli accanto; si è sviluppata in me la vera compassione; desidero stare accanto a chi soffre ed essere un sollievo, condividendo il suo cammino e il suo peso; quando lo faccio, la compassione mi cura e mi guarisce, e soprattutto mi consola. Il dolore è un dolore per l’incontro e per la fraternità, per l’amore, per la compassione. Solo la compassione ci rende felici; senza compassione non c’è gioia, è lì la perfezione di Dio: “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Luca 6, 36).
La morte di mio figlio mi ha reso migliore. Ora ho un altro modo di guardare la vita, di essere. Se io con il mio amore limitato e mortale desidero la vita di mio figlio, so che solo il Dio della vita, l’eterno, colui che ha l’amore pieno ed è il Creatore potrà rispondere a questo desiderio che ho nei confronti dei miei cari: “Ti amerò eternamente”. Solo in Lui sarà possibile rimanere nell’amore, al di là della propria morte. Per questo desidero amore, essere migliore, perché capisco che è la via della vita e dell’incontro quello che vince la morte: “Solo l’amore è più forte della morte”.
Quello che sembrava fondamentale e centrale della vita è rimasto relegato sullo sfondo. A cosa serve avere, tesaurizzare, sapere di più, il successo? Nulla di tutto ciò è paragonabile all’amore, alla vita semplice e quotidiana, alla relazione, alla famiglia, all’incontro amato e amichevole. È fondamentale distinguere la necessità, il desiderio e il capriccio. Distinguere ciò che è autentico, quello che rimane, da ciò che è passeggero, che è caduco: “Non accumulatevi tesori sulla terra, dove tignola e ruggine consumano e dove ladri scassinano e rubano” (Mt 6, 19).
Nascondiamo la morte, ci inganniamo. Sarebbe la prima lezione che dovremmo imparare dalla vita: moriremo, possiamo morire in qualsiasi momento, i nostri cari se ne possono andare. Solo così possiamo affrontare meglio la realtà della morte nella vita. E questo ci porterebbe a guardare la vita – ogni giorno, ogni minuto – come un incontro con il suo valore unico e trascendente; a valorizzare il vero tesoro della vita che abbiamo tra le mani: la costruzione come persone nell’amore vero. Solo percorrendo la via dell’autenticità si arriva alla pace interiore che produce gioia. Solo i puri di cuore vedranno Dio: “Beati i puri di cuore…” (Mt 5, 8); “Sia invece il vostro parlare sì, sì; no, no” (Mt 5, 37).
Si può arrivare ad amare tanto da non resistere a non poter amare o non essere amato, ma di contro è sbagliato non iniziarsi all’accettazione del fallimento, del dolore e della difficoltà. La vita ha anche le sue componenti di limitazione, di dolore e di insuccesso. Integrarle e superarle è saper vivere. Non possiamo educare nascondendo il dolore e il fallimento, dobbiamo aiutare a viverlo. Di fronte al fallimento del figlio perduto, dobbiamo continuare ad amare e a vivere, consolando e costruendo, perché continuano ad esserci ragioni di vita e di scommessa su ciò che rimane di relazione, di storia, di famiglia, di lavoro. Ricostruiamo la persona amata se la teniamo presente vivendo la vita partendo dalle cose positive e scommettendo su ciò che ci augurava con il suo amore. L’amore integra il fallimento: “Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16, 24-25).
Nostro figlio ci ha preparati alla sua morte. Di fronte al nostro grido “Perché lui?”, si è alzato nell’ospedale madrileno, ha indicato tutti quelli dell’unità oncologica che lo circondavano nella sala e ha chiesto con tono di voce alto e compassionevole: “E perché tutti loro?” Tutti dobbiamo morire, e dobbiamo saperlo fare. Noi ci sentiamo uniti a lui, e stare nell’associazione è qualcosa che ci aiuta a vivere come lui voleva che facessimo. La debolezza nascosta provoca tristezza, la debolezza accettata e condivisa porta alla forza dell’allegria che nessuno può togliere: “Da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2 Cor 8, 9).
La morte di mio figlio mi ha avvicinata a Dio e mi ha fatto diventare più religiosa. In Lui trovo pace e consolazione. Anche lui si è aggrappato a Cristo quando ha dovuto vivere la cecità e il dolore nella sua malattia. Sentiva il suo aiuto, e ci ha esortati ad essere più religiosi. Ora, più che chiedere a Dio, mi sento unita a Lui, alla sua crocifissione, all’immagine delle sue cadute. E sento la sua compagnia e il suo incoraggiamento: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20).
Ora il docente e il falegname hanno gli stessi sentimenti, possono sedersi allo stesso tavolo e condividere lo stesso pane, possono essere “compagni” perché hanno bevuto dallo stesso calice, e li unisce un sentimento che è unico nel dolore, ma anche nella consolazione e nella speranza. Alla felicità si arriva con il cammino della comunione e della fraternità: il cuore pieno di nomi. Dimmi dove arriva la tua relazione e ti dirò quanto sei felice: “Non rendete a nessuno male per male” (Rom 12, 17). Per loro tutto avrà senso se reincontreranno i propri figli nella vita che non ha fine. Nei loro desideri e nella loro speranza ho notato che la morte del figlio amato reclama la giustizia che sarà possibile solo se ci sono la resurrezione universale e l’incontro definitivo con l’amore che vince la morte per sempre, e dà senso a tutta la storia, inclusi i fallimenti, le morti di qualsiasi tipo… come ha fatto Dio Padre con il figlio crocifisso. Dall’incontro con persone che si sono viste spezzare il cuore nella morte e che si sono ricostruite nella speranza possiamo recitare il Credo con più convinzione, dicendo ogni domenica: “Credo nella resurrezione dei morti e nella vita del mondo che verrà”. Amen.
Josè Moreno Losada, sacerdote dell’arcidiocesi di Mérida-Badajoz (Spagna) e docente dell’Università dell’Estremadura.