Una delle opere più famose che la letteratura italiana ci ha lasciato è senza dubbio la «Divina Commedia», in cui Dante Alighieri, autore e nello stesso tempo personaggio, percorre un viaggio tutto particolare attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso.
Lo scenario iniziale della Commedia (siamo nel primo Canto dell’Inferno) vede Dante nella «selva oscura», ai piedi di un «colle», tre bestie feroci che gli bloccano la salita e un’ombra, quella del poeta latino Virgilio, mandato dal cielo per guidare il sommo poeta nel viaggio fino al Paradiso: lì Dante troverà la sua Beatrice, che gode la beatitudine eterna. L’incontro con Virgilio è in questo momento decisivo, perché è funzionale non solo a definire il poeta come «guida, autore e maestro» dell’autore-personaggio, ma anche a sciogliere l’impasse dei dubbi e ancora di più delle paure che Dante nutre, smarrito in una selva di vizi o passioni e affrontato dalle «fiere», figure simboliche della lussuria (la lonza), della superbia (il leone) e dell’avarizia (la lupa).
Dopo le prime presentazioni1 Virgilio si rivolge a Dante con queste parole:
«Ma tu perché ritorni a tanta noia?
perché non sali il dilettoso monte
ch’è principio e cagion di tutta gioia?» (Inferno I, 76-78).
Questa terzina costituisce il primo richiamo, in tutta la Commedia, diretto a Dante da parte delle sue guide: Virgilio sollecita il viaggiatore a non rimanere oltre in quella «selva oscura», popolata dalle «fiere», a vincere l’angoscia e la paura del momento e soprattutto a «salire il dilettoso monte». Questo è il punto centrale e l’obiettivo essenziale di tutto il viaggio dantesco, che vuole essere, nei suoi propositi più alti, un «itinerario della mente verso Dio».
Il monte (lo stesso del v. 13, «ma poi ch’i’ fui al pié d’un colle giunto»)2, è «dilettoso» perché rappresenta per l’anima smarrita la via della speranza e della liberazione, l’uscita dalla notte e dalle tenebre per giungere alla luce del sole: Dante comprende che il vero «sole che sorge» è Dio stesso, che illumina la notte del peccato e riporta l’anima sulla «diritta via»3. Questo è nella sostanza la salita del monte: mettersi sulla «diritta via», compiere un vero e proprio cammino di perfezione, in cui l’anima si lascia plasmare dalla grazia divina fino a giungere alla felicità piena in Dio, «principio e cagion di tutta gioia» (Inferno I, 78).
L’invito a salire il «dilettoso monte», che troviamo nella Commedia, è la stessa esortazione che leggiamo anche nel libro del profeta Isaia 2, 3, «Venite, saliamo sul monte del Signore, / al tempio del Dio di Giacobbe, / perché ci indichi le sue vie / e possiamo camminare nei suoi sentieri» (e con poca differenza, anche in Michea 4, 2).
Ma quando pensiamo al «dilettoso monte» non può non venirci in mente, nel particolare, proprio il monte Carmelo, che anche nella Scrittura ci viene presentato di per sé come luogo di bellezza, quasi un giardino paradisiaco, pieno di delizie, e ancora come il luogo di una possibile e rinnovata creazione. Leggiamo a questo proposito un altro passo di Isaia: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, / esulti e fiorisca la steppa. / (…) Le è data la gloria del Libano / lo splendore del Carmelo e del Saron. / Essi vedranno la gloria del Signore, / lo splendore del nostro Dio. / (…) Allora si schiuderanno gli occhi dei ciechi / e gli orecchi dei sordi si apriranno. / Allora lo zoppo salterà come un cervo / e la lingua del muto griderà di gioia, / perché scaturiranno acque nel deserto, / scorreranno torrenti nella steppa. / La terra bruciata diventerà una palude, / il suolo riarso si muterà in sorgenti d’acqua.» (Isaia 35, 1-2; 5-7). Per il senso biblico «Carmelo-giardino» possiamo citare anche il passo di Geremia 2, 7 «io vi ho condotti in una terra da giardino, perché ne mangiaste i frutti e i prodotti»; nella Vulgata, la versione latina della Bibbia, il testo riporta invece proprio il riferimento al Carmelo, «introduxi vos in terra Carmeli, ut comederétis fructum eius et óptima illíus», rendendo così più esplicito il legame tra la terra del Carmelo e il giardino ricco di frutti meravigliosi e dei prodotti più buoni che ci siano4. Tutto questo per dire in sostanza che anche il monte Carmelo può essere di per sé il «dilettoso monte» sul quale Dante deve incamminarsi, essendo anch’esso monte di Dio.
La conferma a questa suggestione sembrerebbe venirci proprio dal nostro santo padre Giovanni della Croce, nella sua opera Salita del Monte Carmelo. Il santo ci propone un vero e proprio cammino di perfezione, in cui l’anima, modellata dalla grazia, giunge alla piena unione con Dio. Ecco cosa leggiamo all’inizio dell’opera:
«Tutta la dottrina che io esporrò in questa Salita del Monte Carmelo è contenuta nelle strofe che seguono in cui viene spiegato il modo di raggiungere la cima del monte, cioè l’alto stato di perfezione, che in questo libro io chiamo unione dell’anima con Dio». (San Giovanni della Croce, Salita, argomento)
Anche in quest’opera, come nella Commedia, siamo di fronte ad un cammino verso Dio, che vuole coinvolgere tutta la persona. L’accostamento di Dante e san Giovanni appare senza dubbio insolito e forse, per certi versi, anomalo; ma resta il fatto che sia nella Commedia sia nella Salita, la meta ultima proposta all’anima è la vetta di un «monte dilettoso», ovvero la piena unione con Dio per poter godere di lui e delle sue delizie. Per giungere la «cima del monte» l’anima deve seguire la retta ragione e la grazia divina, un altro elemento in comune tra la salita del «dilettoso monte» dantesco e il Carmelo: anche Dante nel suo viaggio deve lasciarsi guidare da due guide d’eccezione, Virgilio e Beatrice, che nella Commedia rappresentano proprio la ragione l’uno e la grazia divina l’altra.
Possiamo dire quindi che i due autori, Dante e Giovanni della Croce, possono essere accomunati senza dubbio per la coscienza del viaggio, che ha in sé qualcosa di soprannaturale, e ancora di più per la certezza della meta, la vetta del «dilettoso monte», espressione così opportuna anche per il monte Carmelo, proprio perché è monte di Dio.
Tuttavia bisogna sottolineare anche qualche differenza. Le strofe che san Giovanni della Croce intende spiegare nella Salita del monte Carmelo, corrispondono ad una delle opere, che Giovanni compone nel periodo in cui è tenuto in carcere a Toledo (nove mesi, tra il 1577-78). Si tratta della Notte oscura, che inizia con questi versi: «in una notte oscura, / con ansie, in amori infiammata, – o felice ventura! – / uscii, né fui notata, / stando già la mia casa addormentata. // Al buio uscii e sicura…». Anche il tema della «notte» sembra avvicinare il Dante del primo Canto dell’Inferno e san Giovanni, ma è una prossimità solo apparente, cioè solo dell’espressione e non nel senso che l’uno e l’altro gli attribuiscono. Da una parte troviamo la notte della «selva oscura», quella penosa e paralizzante di Dante di fronte alle «bestie feroci» dei peccati: una notte che fa paura al viaggiatore («la notte ch’io passai in tanta piéta», Inferno I, 21). Dall’altra, invece, San Giovanni della Croce definisce la notte oscura «felice ventura», ovvero sorte felice, favorevole, proprio perché diventa l’occasione in cui l’anima si lascia guidare e plasmare da Dio nel cammino di purificazione dell’anima. Nell’orizzonte della salita del «dilettoso monte« del Carmelo, quindi, la notte non è solo necessaria, ma anche desiderabile, perché è luogo della grazia; l’anima deve entrare nella notte, lasciarsi educare e rieducare nei sensi a non assecondare i propri appetiti e a praticare la virtù. In secondo luogo deve lasciarsi guidare nella notte, ancora più oscura, della fede, in cui l’anima – per citare direttamente san Giovanni – «resta all’oscuro completamente, abbandonando ogni lume della natura e della ragione perché vuole salire per questa divina scala della fede che ascende e penetra fino alla profondità di Dio» (Salita, libro 2, cap. 2): questa oscurità della ragione è tale affinché l’anima si lasci illuminare, quasi abbagliare, da quella luce in cui Dio si vuole rivelare e far conoscere unicamente per il dono gratuito della fede.
5. Il cammino ascendente della Salita del Monte Carmelo, al contrario, non vuole essere simbolico, se ne può ricavare accidentalmente una teologia, una filosofia, una sapienza. Ma la salita del «dilettoso monte», proposta da san Giovanni della Croce, è concretissima: tratteggia la mappa di una vera via verso la perfezione, di un vero cammino da percorrere, è una vera e propria pratica di vita per giungere alla piena unione con Dio.
Prima di concludere, possiamo trovare anche un’altra differenza non trascurabile tra la Divina Commedia e la Salita del Monte Carmelo, differenza iscritta nelle diverse intenzioni degli autori. Nella prima opera possiamo essere anche persuasi che Dante abbia ricevuto in qualche modo un’illuminazione dall’alto, un’intuizione particolare, frutto della grazia divina: è possibile, non lo si può negare in assoluto, ma non dobbiamo dimenticarci che l’orizzonte dell’autore-personaggio resta quello letterario, a sua volta inserito in un contesto culturale (teologico e filosofico) particolare; tutto è descritto a partire da un piano simbolico e il lettore accorto deve in qualche modo svelare ciò che sta sotto il velo dell’allegoria
F. Francesco Conte ocd
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Note
[1] «Non omo, omo già fui, / e li parenti miei furon lombardi, / mantovani per patria ambedui. / Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi, / e vissi a Roma sotto il buon Augusto, / al tempo degli dei falsi e bugiardi. / Poeta fui, e cantai di quel giusto / figliuol d’Anchise che venne da Troia, / poi che il superbo Ilión fu combusto» (Inferno I, 67-75).
[2] Il monte in questione che Dante si trova di fronte non ha niente a che fare con un’altra nota montagna della Divina Commedia, ovvero quella del Purgatorio. L’orizzonte che Dante si trova a sperimentare in questa fase è assolutamente terreno, quindi slegato in tutto dalla possibilità, concessa per grazia, del viaggio ultraterreno, che sta per iniziare. Dante si trova da vivo nella selva oscura e vede nel «dilettoso monte» l’uscita dalle tenebre del peccato alla luce di Dio.
[3] Riprendiamo ancora le parole di Dante dal famoso incipit dell’Inferno, «nel mezzo del cammin di nostra vita / mi ritrovai per una selva oscura, / ché la diritta via era smarrita» (vv. 1-3), e più avanti, «allora fu la paura un poco queta / che nel lago del cor m’era durata / la notte che ch’io passai in tanta piéta» (vv. 19-21).
[4] Su questo argomento e sulla definizione biblica del monte Carmelo cfr. Antonio Maria Sicari ocd, Storia poetica e spirituale dei Carmelitani (in Quaderni Carmelitani 24, 2009, 13-77), da cui ho tratto alcuni spunti interessanti.
[5] Lo stesso Dante, nel primo richiamo della Commedia ai lettori, scrive: «O voi ch’avete li intelletti sani, / mirate la dottrina che s’asconde / sotto il velame de li versi strani» (Inferno, IX, 61-63).