Il discernimento vocazionale secondo Edith Stein

In questa riflessione trattiamo l’importanza di percorrere un cammino di discernimento che aiuti la persona a comprendere la propria vocazione, in senso ampio, facendo riferimento naturalmente alla vita e agli scritti di Edith Stein. Ella per prima lo ha fatto e, in qualità di insegnante e di pedagogista, ha accompagnato molte giovani a scoprire lo stato di vita più adatto a ciascuna di loro.

Saranno offerte indicazioni e suggeriti strumenti che aiutano a percorrere la strada, salvaguardando sempre la libertà della persona. Non appartiene infatti alla modalità di Edith quella di essere direttiva, di fornire schemi, ricette, soluzioni o cose simili; al contrario, il suo obiettivo educativo è sempre quello di accompagnare ciascuno a raggiungere il proprio nucleo interiore più profondo, a essere autentico, in modo da poter liberamente compiere le scelte che ritiene più adeguate per sé e consone alla propria coscienza (naturalmente rettamente formata).

Ben prima dell’ingresso nella Chiesa Cattolica, Edith si era posta il problema di cosa fare della propria vita. Nella “Storia di una famiglia ebrea” c’è infatti un passo in cui Edith racconta dell’influenza dello zio David sulla scelta della sorella Erna di iscriversi alla facoltà di medicina. Edith aveva commentato dicendo che si è al mondo per servire l’umanità e questo lo si può fare al meglio se si mettono in gioco le doti che per natura si possiedono. Indubbiamente qui la prospettiva è quella della scelta lavorativa, ma in realtà questa frase rivela ben di più: l’aver maturato la consapevolezza di una vita intesa come dono, come servizio, e non come un bene personale da vivere in maniera autoreferenziale. Le scelte perciò non sono a partire dal proprio tornaconto o dalla gratificazione dei propri desideri, ma dal bene comune. Questo è un valore tipicamente evangelico; eppure quando Edith lo comprende è non solo ancora lontana dalla fede cristiana, ma dalla più generale dimensione religiosa. Ciò testimonia che la coscienza, quando ricerca in maniera sincera, non può che arrivare alla verità. Ancora, questa semplice frase di Edith evidenzia che ha intuito una questione molto importante: che la realizzazione di sé non sta nel mettersi al centro, ma nel servire. Indubbiamente servire conformemente alla propria struttura naturale, ma comunque servire: questo è il segreto della felicità. Possiamo anticipare che anche la scelta dello stato di vita altro non è che l’aver inteso che, per come ciascuno è, la vita matrimoniale o quella religiosa è il modo più idoneo per amare.

Questa comprensione non avviene tutta d’un tratto, quasi fosse una illuminazione interiore improvvisa. Al contrario, essa richiede un cammino lento e progressivo, nel quale la persona raggiunge il profondo centro di se stessa. Durante questo percorso emergono tutte quelle dimensioni che fanno sì che ciascuno sia un essere unico e irripetibile, con doti, limiti e potenzialità che costituiscono la sua forma. Prendere coscienza di chi si è e di come si è spalanca la porta della libertà: è solo a partire dal dato di realtà del presente che la persona può scegliere quale obiettivo raggiungere e quale sentiero percorrere. Se il punto di partenza infatti è falso si rischia di non camminare affatto, ma di vivere nella dimensione dell’illusione e di trovarsi al termine della vita con nulla o quasi di realizzato. Dunque per non correre il rischio di camminare nell’irrealtà, è assai utile porre i propri piedi nel punto di partenza corretto: la conoscenza di sé come presupposto per il discernimento vocazionale.

Il primo passo che Edith suggerisce per comprendere la propria vocazione è arrivare a essere in grado di prendere contatto con la propria coscienza, cioè con il nucleo centrale del proprio essere. Solo stando in questo centro interiore si può capire ciò a cui si è chiamati e, di conseguenza, si individua il percorso per poter realizzare tale vocazione. E’ inoltre importante coltivare una certa qual duttilità, che rende la persona capace di adattare la propria scelta vocazionale alle circostanze e alle possibilità del momento in cui vive. Quest’ultima affermazione rivela l’atteggiamento fenomenologico di Edith, che non ha plasmato solo la sua ricerca filosofica, ma è diventato un tratto esistenziale. Esso consiste nell’imparare a lasciar parlare gli avvenimenti così come essi si presentano, nel vivere ordinario, permettendo che essi raggiungano la profondità dell’Io. Qui infatti vanno letti e compresi, per potervi trovare l’indicazione per orientare la propria esistenza, per poter trovare il senso profondo del vivere, in ultima analisi per essere felici. Questo modo di procedere non ha nulla di teorico, come si vede: al contrario, si radica nella più estrema concretezza ed è assolutamente personale, perché tale è ogni persona, reale e unica. Il fatto poi di porsi in ascolto dei fatti così come essi si presentano non è fatalismo o remissività. Se infatti si parte dal presupposto che noi siamo figli di un Padre che ha cura di ognuno e segue con amore il cammino di ciascuno, allora i fatti della vita non sono che epifania della Provvidenza. Accoglierli dentro di sé, silenziosamente, è un atto di fiducia verso questo Padre celeste e rispondere con la vita dice maturità umana e spirituale della persona.

I giorni però sono spesso caratterizzati da un ritmo piuttosto concitato e il rischio è quello di farsi travolgere dalla velocità. Ne derivano comportamenti che assomigliano più a una serie di reazioni agli stimoli che non una risposta consapevole alla chiamata di Dio (che coincide con la piena realizzazione del profondo Io della persona). Per questo da subito Edith non esita a suggerire alle giovani che a lei si rivolgono di sottrarsi al flusso continuo degli eventi per incamminarsi sulla via del silenzio interiore. Se la persona fa questo passo, allora poi riesce a udire la chiamata di Dio e sperimenta che la vocazione che le viene offerta dall’alto corrisponde esattamente al desiderio più profondo del suo Io: la chiamata di Dio infatti è un portare a pienezza di realizzazione gli stessi doni che Egli ha elargito alla persona quando l’ha creata. Natura e Grazia operano infatti sempre in sinergia. Al contempo però Edith subito avverte che il discernimento vocazionale non riguarda solo un periodo della vita, quando cioè si sceglie che orientamento dare alla propria esistenza. La vocazione non è acquisita una volta per sempre, in maniera definitiva, quasi che alla fatica della ricerca segua poi un godimento in perfetta tranquillità. La vocazione  è piuttosto la porta di ingresso in un divenire, in un cammino di continua trasformazione; è quello che già altre volte abbiamo indicato: creati a immagine di Dio, siamo chiamati a diventare Sua somiglianza, con una scelta libera e consapevole. Naturalmente questo dentro uno stato di vita, che però appunto non è stasi, ma percorso esistenziale.

Dice Edith nel corso “Problemi della formazione delle ragazze oggi”, tenuto nel 1932:

Ogni essere creato ha un senso che gli è proprio, un senso che è la sua particolare maniera d’essere a immagine dell’essenza divina”.

Ciò significa che la vocazione di ciascuno è esclusiva, personale e particolare. Essa però si fonda su degli “universali”, legati al fatto che la persona ha una struttura che la accomuna a tutti gli altri uomini. Il particolare cioè va a inserirsi su quella forma che è tipica dell’essere umano in quanto tale. Nel discernimento vocazionale vanno tenute presenti entrambe le dimensioni, altrimenti ci si allontana dall’equilibrio e, dunque, dalla felicità. Non si ha infatti pienezza della persona se una sua parte risulta ipertrofica e l’altra sottosviluppata.

La vocazione va considerata, per Edith, da tre differenti prospettive:

  1. la vocazione dell’essere umano in generale
  2. la vocazione dell’uomo e della donna in quanto appunto uomo e donna
  3. la vocazione personale di ogni uomo e di ogni donna, cioè cosa ogni persona è chiamata a realizzare nella Chiesa e nella società: questa incarnazione naturalmente presuppone il solido fondamento delle prime due.

Dice infatti Edith nella conferenza del 1931 dal titolo: “Vocazione dell’uomo e della donna secondo l’ordine della natura e della grazia”:

E’ Dio che chiama ogni essere umano a fare qualcosa di unico, qualcosa cui ognuno è chiamato in maniera personale, ma anche specifica in quanto uomo e donna”.

 

L’essere umano è, usando una terminologia tipica della filosofia, un “tipo universale”. Ciò significa che ogni persona in quanto tale ha tutte quelle caratteristiche biologiche, psicologiche e spirituali che sono tipiche dell’essere umano.

E’ qui che si inserisce la vocazione universale a divenire somiglianza di Dio creatore..

Per nascita però ogni persona è fisiologicamente uomo o donna e questa diversità non riguarda solo la corporeità, ma anche la dimensione più interiore, psicologica, fino anche alla modalità di vivere la spiritualità, intesa come personale relazione con Dio. Diversità che non significa né inferiorità, né superiorità, né contrapposizione, ma specificità e complementarietà.

Dice Edith nel già citato corso “Problemi della formazione delle ragazze oggi”:

Non è soltanto il corpo ad avere una struttura diversa, non sono soltanto le varie funzioni fisiologiche individuali a essere diverse, ma è tutta la vita fisica che è diversa: diversi sono i rapporti fra anima e corpo, diversi i rapporti fra spirito e sensibilità, all’interno stesso dell’anima, e diversi anche i rapporti fra le varie forze spirituali”.

Riguardo la particolare vocazione della donna, abbiamo già detto infatti come proprio la sua corporeità addita il suo essere creata per essere sposa e madre. La sua anima non è dissimile: è infatti particolarmente sensibile alle questioni umane, fatta per prendersi cura delle persone concrete, per partecipare della vita dell’altro. Questa sua caratteristica viene certamente incarnata nell’ambito familiare, ma anche fuori dalle mura domestiche, nell’attività professionale come pure nella consacrazione religiosa. Sebbene questo significhi che esistono delle professioni che sono più adatte a lei, non per questo essa è obbligata a restare in questo alveo. Fin da giovanissima infatti Edith ha strenuamente sostenuto il diritto della donna non solo a svolgere una professione fuori dalle mura domestiche, ma a poter scegliere qualunque tipo di attività, a patto naturalmente che essa non le faccia perdere la sua femminilità. In realtà in più conferenze Edith ha evidenziato come a fare la differenza è la modalità con cui l’uomo e la donna impostano il lavoro: il tratto femminile e quello maschile sono insopprimibili ed emergono in ogni tipo di attività.

Sempre a motivo dell’unicità della persona c’è poi da tenere in conto la questione del carattere, a formare il quale concorre non soltanto il fatto di essere donna, ma anche le tendenze che sono intrinseche alla persona, la storia personale, l’educazione ricevuta, ecc. Nemmeno il contesto sociale e culturale sono fattori trascurabili, perché le varie epoche testimoniano quanto potere abbiano avuto nell’influenzare la visione di uomo o di donna. Nella concretezza è perciò molto difficile riuscire a discernere ciò che è proprio della persona e ciò che invece frutto di condizionamenti esterni; essenziale è comunque tenere desta la ricerca interiore, perché non sia la storia a portare, ma ci sia sempre e comunque una percentuale di libera scelta.

La vocazione maschile invece, secondo Edith, è caratterizzata da un forte desiderio di conoscenza, tendenzialmente astratta, delle cose. Questo porta a creare, a trasformare, ma spesso senza avere contatto profondo con l’essere concreto. Inoltre è molto frequente la tendenza dell’esclusività: l’uomo raggiunge magari un livello altissimo di specializzazione, ma in maniera puntiforme, rischiando di perdere la visione d’insieme. Già qui si può notare quanto complementari siano le prospettive maschile e femminile.

Indubbiamente poi, legata alla sua identità maschile, c’è la vocazione alla paternità, che non si limita all’aspetto biologico. Più che non la maternità, la paternità si acquisisce esercitandola. Essa consiste nella capacità di far emergere le doti delle persone che gli sono affidate in custodia, come anche sostenere e correggere. Tale paternità non è limitata ai figli secondo la carne, ma a tutti i prossimi. La paternità spirituale qui ha ampio spazio per essere esercitata.

Sia l’uomo sia la donna possono portare a piena maturità il loro essere sia nella vocazione matrimoniale sia nell’altro stato di vita che è la vocazione religiosa. Il celibato consacrato infatti è comprensibile solo nel suo essere complementare al matrimonio ed entrambi vanno letti alla luce della relazione sponsale di Cristo con la Chiesa tutta.

Ciò che caratterizza la vocazione religiosa è la modalità con cui la persona vive con Dio, e come mette la propria vita a completo servizio della Chiesa e di tutti gli uomini, vissuti come suoi fratelli e sue sorelle. Tale donazione avviene come membri di una congregazione religiosa, o in una forma più laicale, oppure nella solitudine e nel silenzio.

Anche  in questo caso la chiamata di Dio non ribalta la natura della persona; al contrario, la scelta della condizione concreta in cui vivere la vocazione religiosa è fortemente dipendente dalla sua struttura interiore e dalla sua storia. In una lettera a Rosa Magold, lettera del 1931, così Edith si esprime:

“Il problema della scelta fra l’ingresso in un ordine religioso oppure in una associazione indipendente o in una vita tutta consacrata al servizio di Dio non ha una soluzione di carattere generale, ma personale, secondo modalità proprie a ognuno. La diversità degli ordini, delle congregazioni, delle associazioni non è un caso e nemmeno un’aberrazione: essa proviene dalla varietà delle intenzioni e degli esseri umani. Non tutte le possibilità offerte convengono a tutti, né una determinata associazione o forma di organizzazione può dare tutto. Un corpo vivente, ma più membra. Uno spirito, ma molti doni. Dove una persona entra, ecco il problema della sua vocazione; ed è il tuo principale problema, ora che hai superato la prova della tua scelta di vita. Il problema della vocazione non si risolverà mettendo alla prova te stessa, né peraltro mettendo alla prova i vari percorsi possibili. La soluzione va cercata nella preghiera e, in molti casi, con l’aiuto d’un direttore spirituale”.

La vocazione religiosa è sempre una scelta libera e personale, che ha bisogno di nutrirsi si silenzio e di preghiera. E’ questo l’humus nel quale l’interiorità può svilupparsi e le profondità della persona possono manifestarsi.

Edith sostiene anche l’importanza dell’accompagnamento spirituale: indubbiamente la presenza di una persona più esperta che cammini accanto, aiutando a decodificare movimenti interiori, è un aiuto preziosissimo.

Alcuni criteri citati da Edith in riferimento alla scelta vocazionale sono la felicità interiore, un desiderio molto profondo, l’uso dei propri doni nella scelta dello stato di vita, ecc. E’ però necessario tenere presente anche il contesto culturale, sociale, politico e storico nel quale si vive, che può fortemente condizionare scelta, fino a determinare ciò che è possibile e ciò che non lo è. Basti pensare alla stessa storia di Edith. Ella infatti desiderava essere docente univeristaria, ma non poté esserlo prima perché donna poi perché ebrea; desiderava entrare nel Carmelo a partire dal 1922, ma di fatto vi entrò nel 1933.

Un’ultima annotazione: la vocazione religiosa non uniforma l’uomo e la donna. La modalità di incarnare questo stato di vita rispecchia l’essere proprio di ciascuno dei due sessi e di ogni individualità. Sia nelle opere sia nella modalità di vivere la relazione con Dio ci sono peculiarità proprie che sono una delle grandi ricchezze di questo stato di vita vissuta appunto in maniera complementare come uomini e come donne.

Un’ultima considerazione, che in realtà abbiamo già accennato. Sia che si concretizzi in una consacrazione in una associazione, sia che si opti per una vita di solitudine e silenzio, la vocazione religiosa è sempre e solo per il servizio ai fratelli. A cambiare è solo la modalità. Se la vocazione religiosa portasse infatti a estraniarsi dalla comunità umana sarebbe completamente fuori dalla logica del Vangelo, lontana dal cuore stesso di Dio. Egli infatti è Padre di tutti gli uomini e di ciascuno si prende cura. Essere Suoi figli significa fare sempre più spazio in noi a questo amore universale, perché l’intera umanità divenga sempre più la famiglia dei figli di Dio.

Il come, cioè in quale modo allargare il proprio cuore, dipende dalla vocazione specifica di ciascuno. Matrimoniale o religiosa che sia, la vocazione è infatti una chiamata alla santità, rivolta a tutti. Edith lo dice chiaramente in una lettera del 1928 indirizzata all’amica Sr. Callista:

La religione non è qualcosa di riservato a posticini tranquilli e alle feste…. e in più per rari eletti, ma è per ogni vero cristiano”.

Scelto dunque lo stato di vita più idoneo per sé, allora si è chiamati a svolgere una professione, che è certamente soddisfazione delle esigenze materiali dell’esistenza, ma più in profondità servizio all’umanità. Alcune volte, per motivazioni varie e non sempre dipendenti dalla persona, non si può svolgere quella particolare attività a cui si è più idonei.

Dice Edith nella conferenza “Vocazione dell’uomo e della donna secondo l’ordine della natura e della grazia”:

In una data situazione, altro non resta da fare che trarne il meglio: da una parte, soddisfare le esigenze soggettive della professione; dall’altra, non far fallire né lasciar deperire la natura propria, ma farla servire, lì dove si è, per il bene dell’insieme”.

Questo allarga il cuore perché, per quanto faticosa o dolorosa possa essere, ogni circostanza, anche la più avversa, non compromette alcunché: fondamentale è infatti vivere in pienezza quello che nel presente ci si presenta. Ogni istante infatti è “tempiterno”, cioè carico di eternità, sempre e comunque.

 

Edith Stein

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