Il 26 ottobre scorso si è svolto il colloquio fra l’equipaggio della Stazione Spaziale Internazionale e il Santo Padre Francesco: evento memorabile anche se con precedenti, infatti già si era verificato un simile contatto nel maggio 2011 con Benedetto XVI. Raccomando vivamente la lettura del colloquio, o anche la visione della registrazione, carica di suspence come un film di fantascienza nei momenti necessari al corretto stabilirsi della connessione.
Qui ora però vorrei soffermarmi sull’aspetto più spirituale della questione, che emerge con molta naturalezza dell’intreccio di domande e risposte avviato fra il Santo Padre, comodamente seduto dietro una scrivania di legno nell’Auletta dell’Aula Paolo VI, e i sei astronauti – tra cui il celebre italiano (Astro)Paolo Nespoli – fluttuanti nell’assenza di gravità a 400.000 metri di altitudine. Ne riportiamo qualche stralcio:
“Santo Padre: In questa sala da cui vi sto parlando, si trova – come vedete – un arazzo artistico ispirato al celebre verso con cui Dante conclude la Divina Commedia: «L’amor che move il sole e l’altre stelle» (Paradiso, XXXIII, 145). Vi chiedo: che senso ha per voi, che siete tutti ingegneri e astronauti, come Lei ha detto bene, che senso ha per voi chiamare “amore” la forza che muove l’universo? […]
Dr. Nespoli: Il collega Aleksandr [Misurkin] ha fatto una risposta molto bella in russo, che io adesso tradurrò un po’ così, velocemente. Fa riferimento a un libro che sta leggendo in questi giorni qua sopra, per riflettere, “Il piccolo principe” di Saint-Exupéry. Fa riferimento alla storia che dà volentieri – o darebbe volentieri – la propria vita per tornare e salvare piante e animali sulla terra. E, sostanzialmente, l’amore è quella forza che ti dà la capacità di dare la tua vita per qualcun altro”.
Come non riandare commossi alle parole di Gesù: “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13)? Un altro brano del colloquio, invece, ha fatto vibrare nel mio animo una corda marcatamente carmelitana. È questo:
“Santo Padre: E’ vero, senza amore, non è possibile dare la propria vita per qualcun altro. Questo è vero. Si vede che Lei ha capito il messaggio che tanto poeticamente spiega Saint-Exupéry e che voi, russi, avete nel sangue, nella vostra tradizione tanto umanistica e tanto religiosa. E’ bello, questo. Grazie. Questa è una curiosità. Dicono che le donne sono curiose, ma anche noi uomini siamo curiosi! Che cosa vi ha motivato a diventare astronauti? Che cosa maggiormente vi dà gioia nel tempo che passate nella stazione spaziale? […]
Bresnik: Quella che io vedo da qui è una prospettiva incredibile: è la possibilità di vedere la Terra un po’ con gli occhi di Dio, e vedere la bellezza e l’incredibilità di questo pianeta. Nella nostra velocità orbitale di 10 km al secondo, noi vediamo la Terra con occhi diversi: vediamo una Terra senza confini, vediamo una Terra dove l’atmosfera è estremamente fine e labile, e guardare questa Terra in questo modo ci permette di pensare come esseri umani, di come tutti dovremmo lavorare assieme e collaborare per un futuro migliore”.
Prima di arrivare alla risonanza carmelitana di queste parole, però, vorrei fare un breve excursus. Il concetto espresso dall’astronauta statunitense Randy Bresnik era emerso già nel precedente colloquio “spaziale” del 2011 fra Benedetto XVI e i membri dell’equipaggio della Stazione Internazionale: “Uno dei temi su cui ritorno spesso nei miei discorsi è quello della responsabilità che tutti abbiamo per l’avvenire del nostro Pianeta. Ricordo che vi sono seri rischi per l’ambiente e per la sopravvivenza delle future generazioni” aveva affermato allora il Papa Emerito, nelle primissime battute. E già allora l’astronauta statunitense Ron Garan aveva rilevato, come Bresnik ieri, quanto incredibilmente appaia delicata e vulnerabile la terra vista da lassù, “una fragile oasi nell’universo” protetta da appena “un foglio di carta” che è l’atmosfera. Benedetto XVI allora aveva affermato: “Gli scienziati ci invitano alla prudenza, e dal punto di vista etico dobbiamo far crescere le nostre coscienze”; Papa Francesco oggi nel suo magistero quotidiano ci ricorda quanto la custodia del creato debba sempre più incarnarsi nella nostra spiritualità.
È vero: questi astronauti ci aiutano e ci eccitano in maniera incomparabile nella ricomprensione dei nostri orizzonti teologici in questo nuovo millennio in cui siamo entrati. Come afferma Papa Francesco nella stupenda Laudato Si’: “le riflessioni teologiche o filosofiche sulla situazione dell’umanità e del mondo possono suonare come un messaggio ripetitivo e vuoto, se non si presentano nuovamente a partire da un confronto con il contesto attuale, in ciò che ha di inedito per la storia dell’umanità” (n°17). Gli attuali cambiamenti climatici, la sempre più massiccia influenza dell’uomo sul nostro mondo, con le meravigliose o catastrofiche conseguenze che ne possono derivare, impongono una nuova ricalibratura della nostra (è il caso di dirlo) Welt-anschauung cristiana, capace di farne emergere non elementi estranei, ma elementi in essa da sempre centrali e che tuttavia solo alla luce dei segni dei tempi attuali emergono col loro peso. Perché, per usare una metafora sicuramente semplicistica, ma credo calzante, il rapporto dell’uomo col creato è stato come quello di una storia d’amore in cui l’innamorato sbadato ha cominciato a rendersi conto dell’importanza del partner solo nel momento in cui ha cominciato a perderlo, e se stesso con questo…
Eppure non si deve pensare che questa attenzione al creato sia soltanto una novità degli ultimi tempi o un pallino di Papa Francesco. Già abbiamo citato le parole di Benedetto XVI sull’urgenza da lui stesso proclamata nel suo magistero circa la salvaguardia dell’ambiente. E sicuramente non irrelata con questa sua attenzione è stato il conferimento, sempre da parte del nostro Papa Emerito, del titolo di Dottore della Chiesa a S. Ildegarda di Bingen, grande mistica e monaca del XII secolo le cui affascinanti opere sono ancora poco conosciute: ne riportiamo solo qualche stralcio per render conto di quanto attuale e interpellante sia il suo pensiero (che è quello, a sua detta, di Cristo!) circa il rapporto dell’uomo col creato: “La voce dal cielo mi diceva: “L’uomo senza le creature non può vivere né sussistere” […] chiunque non vuole osservare il sorgere e il tramontare del sole, della luna e delle stelle, che Dio ha posto in cielo, né il vento né l’aria, né la terra con le acque e le altre creature che Dio ha creato tutte a vantaggio dell’uomo, perché riconoscesse in loro la dignità per cui era stato creato, costui disprezza Me […] l’uomo ha in sé, invisibili, tutte le creature […] Ogni creatura è mantenuta nei propri confini ad opera di un’altra creatura e l’una è sostenuta dall’altra […] l’uomo è rafforzato e difeso dalla forza degli elementi e dall’aiuto di tutte le altre creature” (Il libro delle opere divine, Seconda visione della prima parte, passim).
Dopo queste parole, il ricorrente monito nella Laudato Si’ di Papa Francesco – che la custodia del creato è un dovere materiale, morale e spirituale di tutti, cristiani in primis, in quanto “tutte le creature sono connesse” – non può più apparire come una “novità”, un ecologismo alla moda, per quanto chi ha ben letto e studiato il documento pontificio già sappia che si possono trovare in nota sostanziali rimandi all’opera di S. Tommaso d’Aquino, oltre che ai versi di S. Francesco. A questo riguardo non posso non citare il bellissimo n°240:
“Le Persone divine sono relazioni sussistenti, e il mondo, creato secondo il modello divino, è una trama di relazioni. Le creature tendono verso Dio, e a sua volta è proprio di ogni essere vivente tendere verso un’altra cosa, in modo tale che in seno all’universo possiamo incontrare innumerevoli relazioni costanti che si intrecciano segretamente (Cfr Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae I, q. 11, art. 3; q. 21, art. 1, ad 3; q. 47, art. 3). Questo non solo ci invita ad ammirare i molteplici legami che esistono tra le creature, ma ci porta anche a scoprire una chiave della nostra propria realizzazione. Infatti la persona umana tanto più cresce, matura e si santifica quanto più entra in relazione, quando esce da sé stessa per vivere in comunione con Dio, con gli altri e con tutte le creature. Così assume nella propria esistenza quel dinamismo trinitario che Dio ha impresso in lei fin dalla sua creazione. Tutto è collegato, e questo ci invita a maturare una spiritualità della solidarietà globale che sgorga dal mistero della Trinità”.
Come dimostra punto per punto l’enciclica la cura del creato è qualcosa che noi cristiani abbiamo da sempre avuto nel nostro DNA teologico, e che ora come non mai dobbiamo vivere con rinnovato slancio, data la criticità della congiuntura storica che stiamo vivendo. Non sarà una distrazione dalle nostre tradizionali attenzioni all’anima, ma il loro necessario approfondimento. Come ribadisce il divino interlocutore delle visioni di S. Ildegarda: “Tu allora, uomo che vedi queste cose, devi comprendere che riguardano anche le realtà interiori dell’anima” (op. cit., XXXII).
Forse è proprio la mancata risposta a questo appello che ci rende lenti e tardi all’invocata conversione ecologica di cui tutti abbiamo bisogno. Come ricorda Papa Francesco nei numeri iniziali della sua enciclica, l’obiettivo per noi cristiani non è tanto quello di immagazzinare dati sul mutamento climatico e pianificare strategie adeguate (serve anche questo!) ma quello di prendere “dolorosa coscienza”, osare trasformare in “sofferenza personale” quello che accade nel mondo. Distaccarsene, vederlo da lontano come i nostri astronauti, lungi dal farci dimenticare il mondo ci aiuta a coglierne meglio il dramma. È esattamente la dinamica che visse un altro grande Dottore della Chiesa, la nostra Santa Madre Teresa d’Avila. Come scrivevo all’inizio di questo articolo, mi è stata tanto ricordata dalle parole dell’astronauta Bresnik sulla necessità di vedere il mondo da un’altra visuale, “con gli occhi di Dio”, al fine di capire come collaborare tutti insieme per un futuro migliore e per un sano progresso dell’umanità. È lo stesso movimento spirituale che S. Teresa ha vissuto nei confronti della propria anima:
“Essendo così lontana dal mondo e in compagnia così piccola e santa, vedo ogni cosa come da una grande altezza, per cui poco mi curo di ciò che si dica o si sappia di me. Più che delle chiacchiere a mio riguardo mi interesso di ogni più piccolo progresso che un’anima possa fare: tale è la disposizione che il Signore si è compiaciuto di darmi da che abito in questa casa” (Vita 40,22).
Che possiamo imparare anche noi, nella casa comune, ad avere questo sguardo, questo riguardo per l’anima e per il creato.
F. Iacopo Iadarola ocd