Isola di San Giulio, lago d’Orta

Alle quattro e cinquanta la notte è fonda, e il lago liscio come uno specchio: vergine ancora, questa mattina di luglio. Silenzio. Dall’acqua immobile nemmeno lo sciacquio sul molo. È l’ora del Mattutino, nell’abbazia benedettina Mater Ecclesiae. Pochi minuti prima, da fuori, i passi degli ospiti in ritiro spirituale, sulle scale. Poi nella cappella ancora in penombra arrivano le monache. Tante, settanta, di cui ben dieci novizie. Ti colpisce come armoniosamente sotto al velo chinano, una dopo l’altra, il capo al tabernacolo, al loro Signore. E ora taglia il gran silenzio della notte sull’isola la prima preghiera: «Abbia pietà di noi e ci benedica. Su di noi faccia splendere il suo volto». Pochi minuti, e il cielo inizia a schiarire. Canta un uccello. Si va levando il giorno. Abbiamo fatto fatica, noi ospiti per poche ore, a alzarci alle quattro. Le palpebre ancora vorrebbero chiudersi, stentiamo a seguire la preghiera. Guardiamo le monache nel coro, di alcune sotto al velo si intravedono lineamenti giovanissimi, altre sono curve di anni. Tutti i giorni di tutta la vita qui, in clausura, a pregare. Come è possibile?, ti chiedi, e avverti che già la scelta di queste donne è un mistero, che ti provoca. Come molte altre cose su questa piccolissima isola carica di storia cristiana, dimora di santi, dove nel 1973, nei locali dismessi di un seminario, la badessa Anna Maria Canopi con cinque sorelle si insediò, e fondò il Mater Ecclesiae. Veniva dal monastero di Viboldone, aveva 42 anni. Oggi ne ha 85: una donna minuta, apparentemente fragile, di cui però ti restano in mente i forti occhi chiari.

Madre, le domandiamo nel parlatorio affacciato sulla quiete del lago, oltre mille pellegrini vengono qui ogni anno. Cosa cercano? «Oggi molti diventano pessimisti, per sé e per quel che vedono accadere attorno. Vengono qui a cercare una luce, un conforto, un motivo ragionevole per essere sereni. Fuori, nel mondo, sembra di assistere alla fine di un’epoca: le moltitudini che cercano una terra per vivere a tanti occidentali fanno paura, perché si sentono invasi. E intanto l’odio del fanatismo islamista sgomenta. Ma, dentro questo clima esteriore, sono pur sempre i dolori personali quelli che spingono a cercare un conforto. Al desiderio di venire qui per potere finalmente aprire l’anima – mentre di sé, tanto spesso, si tace». «Molti – prosegue la badessa – vengono a dirci: io non so pregare. Allora preghiamo noi per loro. Vengono i giovanissimi a cercare la loro vocazione, le coppie che stanno per sposarsi, e quelli che vanno per la vecchiaia, a chiedere come si fa a accettare questa età». E voi, cosa rispondete? Sorridono i vivi occhi della Canopi: «Un proverbio indiano dice che si nasce vecchi, e che bisogna morire giovani. Ma lo dice anche il Vangelo, quando esorta a diventare come bambini, a ritrovare lo sguardo limpido dei bambini…». Questo silenzio, il gran silenzio di San Giulio, non spaventa un po’ gli ospiti? «Non credo, anzi mi pare che arrivino qui desiderosi di silenzio, frastornati dal continuo rumore di fuori. Hanno fame di silenzio, di pregare, di ascoltare altre parole». E qual è la parola fondamentale che dite a chi viene a cercarvi? «Fai silenzio, e spera in Lui. Questa è la cosa più importante. Certo, occorre osare un salto, rispetto alla mentalità che domina comunemente fuori di qui, dove si pensa di farsi da sé, di costruirsi con le proprie forze. È un cedere dell’orgoglio, è un ribaltarsi della prospettiva: fai Tu, sei Tu che mi plasmi». Con questa frase in mente affrontiamo anche noi la densa pace di San Giulio. Scoprendo il sollievo strano di spegnere il cellulare. E i sommessi rumori che in realtà colmano il silenzio: canti di merli, cornacchie, stridio di rondini; e echi lontani di battelli, e, a ore fisse, campane. E il mormorio costante dell’acqua che lambisce le rive. Anche se in questa quiete un giornalista, che vive di rumore, può sentirsi un po’ perso. E allora ci si aggrappa allo scandire delle ore monastiche: Sesta, dalla gran luce del mezzogiorno all’ombra materna della cappella del monastero.

Noi ospiti siamo una decina, due uomini e otto donne. Veniamo da tutto il Nord Italia, e anche dal Sud. Uno, in ginocchio, sgrana in silenzio un rosario. In silenzio restiamo anche in refettorio, seduti a una tavola apparecchiata e candida. Il pranzo che consumiamo è semplice, cerchiamo di non far chiasso neanche con posate e bicchieri, come intimiditi da questo mondo diverso. Il tappo del Lambrusco che salta da solo, sospinto dallo spumeggiare del vino, sembra un gran rumore. Dal refettorio delle monache ascoltiamo la lettura, un brano di Divo Barsotti: «Ascoltare, accogliere Dio attraverso tutto, in tutto, sempre: ecco la vita cristiana. Di qui la necessità di una vita contemplativa non soltanto per chi vive in monastero, ma per chiunque: per chi sta in città, in campagna, per chi va al mercato, in ufficio: sempre ci si trova dinanzi a Dio». Accogliere Dio attraverso tutto. Questa parola ti accompagna nella esplorazione della piccola San Giulio, in un’attenzione che il silenzio rende più profonda: l’acqua del lago, per esempio, stamattina sotto al cielo grigio era color acciaio, al primo raggio di sole si fa di un verde profondo, e ora nel pomeriggio sereno è perfettamente azzurra. I profumi: di magnolia e gelsomino, dentro a un odore mite di acqua dolce. I fiori, anche: come quello rosa, selvatico, nato in una crepa fra le pietre davanti al portone del monastero, non coltivato da nessuno, seminato dal vento. È l’ora del riposo pomeridiano. La camera, in foresteria, è piccola e accogliente e insieme essenziale: tutto il necessario, niente di inutile, non considerando di certo inutili i bei fiori in un vaso, e il candore profumato delle lenzuola. Avverti il profondo rispetto che accoglie l’ospite fra i benedettini, come prescrive la Regola: «Omnes supervenientes hospites tamquam Christus suscipiantur», tutti gli ospiti che arrivano siano accolti come Cristo. Il volto dello sconosciuto come il volto di Cristo, e Dio che ospita, e insieme è ospitato, nel monastero. Poi è Nona, nel caldo del primo pomeriggio, e alle cinque, quando la luce si fa dorata, i Vespri. Salmo 60, la preghiera di un esule: «Dai confini della terra io t’invoco; mentre il mio cuore viene meno, guidami su rupe inaccessibile». E infine, quando il sole di luglio comincia a calare, Compieta. Cantano in cappella le monache, le più giovani con voci ancora da fanciulle. Timidamente, a bassissima voce, pronunci anche tu le parole del canto e di colpo avverti di trarne una letizia: come se semplicemente il lodare Dio, tra tante parole inutili, fosse la parola necessaria.

Ma che mistero grande davvero queste sorelle, liberamente chiuse qui per la vita intera. Ti resta in mente una frase da un libro di Madre Canopi: «…il nostro segreto, ossia che viviamo per Qualcuno». Qualcuno che è fedele, che non abbandona, non tradisce. Vedi l’eco di questo segreto perfino sul volto della monaca portinaia, nel suo sorriso limpido, negli occhi. Potessimo noi, fuori, vivere così, ti dici. Ma chi viene qui e ne parte torna, ti racconta qualcuno che ci è stato, con una pace addosso che irradia a chi gli è vicino. O come dice Silvia, giovane infermiera milanese, si torna «con una riserva di energia». «Noi viviamo per Qualcuno», e ciò che è più grande di te pure ti affascina mentre, nell’ora del Grande Silenzio, vai, presto, a dormire. Nell’eco di una frase di Dietrich Bonhoeffer che hai visto accanto all’ingresso: «Facciamo silenzio prima di coricarci, perchè l’ultima parola appartiene a Dio». Fuori, nell’imbrunire, il lago carezza San Giulio, in un tocco d’acqua color cenere e acciaio.

 

Avvenire.it

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