La natura delle cose, film prodotto da Ladoc in collaborazione con Marche Film Commission e Milano Film Network, è stato presentato al Festival del cinema di Locarno e al Trieste film festival in cui si è aggiudicato il premio Corso Salani. La pellicola è disponibile nell’innovativa piattaforma MovieDay che consente, «con una scelta che parte dal basso», la città e la sala in cui proiettarlo.
«Un barone della medicina, da me interpellato circa le cause che avrebbero provocato la mia malattia mi ha risposto di girare la richiesta al Padre Eterno… ». Così raccontava Cesarina Vighy, bibliotecaria e scrittrice (nel 2009, col romanzo autobiografico L’ultima estate edito da Fazi, vinse il Campiello per l’opera prima) che nel 2010, a 74 anni moriva di Sla – Sclerosi laterale amiotrofica. «È troppo facile fuggire dalla vita, senza accorgersi del suo concatenarsi», ammoniva Angelo Santagostino, ex sacerdote e filosofo, morto anche lui di Sla a settant’anni, nel 2014. Una storia, una delle circa seimila, perché tanti sono i malati in Italia affetti da questo morbo, che forse sarebbe finita nell’oblio se Laura Viezzoli non ne avesse realizzato il suo docufilm.
Si intitola La natura della cose il primo lungometraggio della giovane regista anconetana presentato, con dibattito, in Senato. Settanta minuti di immagini e riflessioni, delicate come l’anima di Angelo Santagostino, il quale si ammalò poco dopo aver perso la moglie. Cinque anni di calvario contro un male che nonostante i generosi sforzi della ricerca italiana (all’avanguardia, a partire dal team del dottor Nicola Vanacore dell’Iss di Roma) non ha ancora trovato una cura efficace. E intanto di Sla si muore, giorno dopo giorno. Un dramma che per i malati si consuma al cospetto dei propri cari, di badanti impiegate “h24” per l’assistenza, di amici e medici impotenti davanti a un “mistero” inarrestabile, che paralizza completamente il corpo. «Ho visto un uomo imprigionato nella sua “gabbia”, il proprio organismo», dice Laura Viezzoli che per un anno, ogni settimana ha incontrato Angelo nella sua casa di Settimo Milanese.
«Il film l’abbiamo scritto assieme con Angelo e il suo medico palliativo, il dottor Sergio Borrelli. Ogni volta facevo poche domande e poi restavo in silenzio ad ascoltare un uomo tenero nella sua fermezza che raccontava della malattia, e non solo… Frasi sempre molto brevi, lente, ma che sembravano scolpite». Frasi, “pronunciate” grazie a un puntatore oculare collegato al computer, l’unica finestra ancora aperta sul mondo esterno per ogni malato di Sla. Comunicazioni imprescindibilmente legate alle 21 lettere dell’alfabeto, un lessico che diventa via via familiare e che ad Angelo consentiva di continuare ad interagire con i propri figli: «Matteo e Sara, la sua ragione di sopravvivenza fino all’ultimo respiro», sottolinea la regista, che nel film per spiegare la condizione del malato di Sla ha adottato la suggestiva metafora visiva dell’astronauta.
«È l’immagine ricorrente, quella di Angelo che non è il malato pietoso, sconfitto e abbandonato a se stesso, ma anzi la persona più viva e attiva, nella sua immobilità, che abbia mai conosciuto. Per questo la sua condizione l’ho associata a quella dell’astronauta in missione, l’uomo che esplora i limiti umani e almeno idealmente tenta di spingersi oltre il suo spazio ristretto, per abbracciare l’universo. Tutti i malati di Sla li ho immaginati come astronauti che si preparano per il viaggio nello spazio in assenza di gravità. Ma per farlo necessitano di addestramento, di solitudine, di nuove forme di comunicazione». Il malato di Sla e l’astronauta uniti dalla linea sottile della “dipendenza tecnologica”, dalle macchine vitali, ed «entrambi protagonisti di situazioni estreme».
Il fascino discreto di La natura delle cose è proprio in questa struggente avventura ai confini di una realtà dura da accettare, ma in cui Angelo, con la dolcezza degli uomini forti, conduce lo spettatore a fare i conti con gli interrogativi sull’esistenza, specie quando si giunge sul crinale tra «il vivibile e l’invivibile». «Angelo – continua Viezzoli – fino all’ultimo ha avuto il conforto della fede. Pregava tre volte al giorno e la preghiera gli donava serenità. Una quiete interiore però non sufficiente a placare il terrore che un giorno anche i suoi occhi si sarebbero bloccati come i muscoli e a quel punto non avrebbe più avuto la possibilità di scrivere e di comunicare…». Perdere l’ultima “voce”, per lui che da tempo non riusciva a sentire e a far uscire il suono della propria, è stato il “buco nero” di Angelo. «Quando gli chiesi come era la sua voce e chi avrebbe voluto che gliela prestasse nel film, Angelo rispose: “Nino Manfredi”. Era uno dei suoi momenti ironici, taglienti, aveva scelto un attore già morto. Così abbiamo deciso che la sua voce sarebbe stata quella del bravissimo Roberto Citran».
La voce calda e rassicurante, come questo film che non ha nulla dell’hollywoodiano e patinato Qualcosa di buono (in cui la protagonista Hilary Swank è una malata di Sla), uscito nel 2014, l’estate in cui Angelo Santagostino è morto. Il film della Viezzoli scava nell’anima del malato, facendo emergere su una superficie lunare la «semplice profondità» che la rende speciale, al di là della malattia. La filosofia del suo Santagostino viene resa con poche inquadrature e affidando all’effetto vintage del Super8 i ricordi di un uomo il cui maggior dolore era quello di doversi staccare per sempre dai figli. «Il desiderio di andare dura come il cielo eterno perché è un abbraccio, il desiderio di restare dura come la terra, che prima o poi finisce», questo è stato l’ultimo messaggio di Angelo, conclude Viezzoli. «Un messaggio da recapitare a tutti, credenti e non, e sul quale dobbiamo continuare a riflettere ».
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