Lorenzo ha 22 anni e vive a Parigi: su un braccio si è fatto tatuare il numero 89219. È la matricola che diedero a sua nonna, Arianna Szörényi, quando a 11 anni venne deportata nel campo di Auschwitz-Birkenau. «Gli ho detto di stare attento», sospira lei adesso «perché ci sono tante teste calde in giro…». Ad Arianna aggiunsero anche un triangolo, per indicare che era ebrea, solo quando fu poi trasferita a Ravensbrück: lì si rese conto della “colpa” che le veniva imputata, anche se i contorni della tragedia le erano ormai chiari. da tempo ribellarsi, protestare di essere cristiana, cattolica, non servì a niente. Arianna ha cominciato a scrivere la sua storia, quella della sua sopravvivenza e della distruzione quasi totale della sua famiglia, una volta liberata e tornata in Italia, mentre si trovava in orfanotrofio. Quando arrivarono gli Alleati a Bergen-Belsen, dove si trovava il 15 aprile 1945, pesava 18 chili ed era scampata al forno crematorio per sette volte. La vita per lei è ricominciata solo nel 1954, quando è diventata maggiorenne, ha trovato un impiego alla Rinascente e ha cominciato a frequentare l’Aned, l’associazione degli ex deportati. Si è sposata, ha avuto tre figli e sette nipoti. Solo di recente, spinta da un’amica fiumana, Gori Bauer, come lei deportata e sopravvissuta all’orrore del Lager, ha deciso di mettere tutto nero su bianco in un libro, “Una bambina ad Auschwitz” (Mursia, 134 pagine, 13 euro).
Un altro nipote, Ezio, lo presenterà oggi alle 10 al Museo di San Giovanni degli Agostiniani di Fivizzano (Massa-Carrara) nell’ambito delle iniziative per il Giorno della memoria. Arianna non ci sarà per ragioni di salute, deve riguardarsi, anche se nel corso degli anni è andata in tante scuole a raccontare la tragedia che ha vissuto. Ricordare è doloroso, farlo le accresce l’ansia e l’insonnia, ma come si fa a sottrarsi? Spiega lei nel libro: “Chi alzerà la propria voce indignata, offesa, quando fra non molto, non ci sarà più alcun testimone?”. Una memoria, una voce in più anche per “contrastare quelli che osano, mentre alcuni di noi sono ancora in vita, minimizzare, addirittura negare, quanto accaduto”. «Abbiamo un compito pesante, terribile» racconta la signora Arianna adesso «Non si possono ricordare cose terribili senza stare male, ma ho il dovere di testimoniare. Un Giorno della memoria all’anno non basta, e guardando quello che accade nel mondo subentra a volte la tristezza, il dubbio che sia tutto inutile. Ma poi mi ricredo subito: sono convinta che qualche insegnamento resti».
Tutto comincia il 6 giugno del 1944 a San Daniele del Friuli, dove la famiglia Szörényi è riparata da Fiume, colpita dai bombardamenti. Papà Adolfo è di origine ungherese, mamma Vittoria è triestina, si sono conosciuti alla Banca italo-ungherese di Budapest dove lui è contabile e lei impiegata, e dalla loro unione sono nati otto figli, sei femmine e due maschi, tutti battezzati con rito cattolico; Adolfo, rimasto vedovo da giovane, è al secondo matrimonio: dal primo ha avuto altri quattro figli, che sono rimasti all’estero. «Eravamo una famiglia normalissima, serana» ricorda oggi Arianna «A casa non si parlava né di ebrei né di fascisti, e quando mamma e papà si dicevano qualcosa che non dovevamo sentire, parlavano in ungherese, che noi non capivamo». Un impiegato dell’anagrafe si insospettisce per quel cognome, svolge ricerche, una, due volte. La spiata del «fascistone» («Che Dio lo stramaledica, ma non c’è più», impreca ancora oggi la signora Arianna) sortisce il famigerato effetto, oggi ricordato da una targa apposta del Comune di San Daniele. Quella mattina alle 6 arrivano le SS: «Hanno sfondato la porta della camera da letto con un calcio, sbraitavano come cani rabbiosi.Ero a letto, non avevo neanche il coraggio di alzare gli occhi… Ricorderò per sempre quegli stivali maledetti, l’unica cosa che riuscivo a vedere. Urlavano “Raus, schnell…”, e ci hanno portati via». Della famiglia si salva solo Edith, la figlia maggiore, che si è sposata con un ufficiale italiano e ne ha assunto il cognome.
Comincia il trasferimento. A Udine, Arianna riceve la prima umiliazione, la sberla da un soldato che poi schiaccia sotto lo stivale il suo anellino di perline. «Lo avevo consegnato alla richiesta se avessimo cose preziose…». Poi Trieste e la Risiera di San Sabba, Auschwitz, dove uomini e donne vengono separati. A settembre del 1944 Arianna viene destinata alla baracca dei bambini ed è divisa da mamma e sorelle. Sopravvive anche all’evacuazione del campo, a dicembre, la “marcia della morte” prima a Ravensbrück e quindi a Bergen-Belsen. Deve subire l’amputazione di un alluce, congelato. Dei suoi familiari torna solo un fratello, Alessandro, da Buchenwald. Crolla la speranza di poter riabbracciare mamma e papà: «Avrei voluto tornare subito ad Auschwitz, per poterli cercare, ero convinto che al mio ritorno li avrei ritrovati a casa e che mi avrebbero detto brava perché ce l’avevo fatta…». Arianna vive per un anno con la sorella Edith, poi entra in orfanatrofio dalle suore per poter studiare, di notte ha ancora gli incubi, ricorda il fuoco dei forni crematori. Si diploma, ne esce a 21 anni. Quel numero impresso sul braccio a 11 anni ora è sbiadito, ma la sua testimonianza continuerà, anche dopo di lei, impressa sulla pelle di Lorenzo.