Ricordi di un pellegrinaggio in Terra Santa 3

3° tappa: Monte Carmelo-Nazareth

Piana di Esdrelon

Lasciamo il convento di el-Muhraqa alle prime luci dell’alba, per non dover poi camminare troppo tempo sotto il sole. Si preannuncia infatti una giornata stupenda, adombrata soltanto dalla malinconia di stare lasciando il nostro Monte Carmelo. Ne scendiamo le pendici velocemente, verso la sottostante piana di Esdrelon (o di Izreèl) che attraverseremo alla volta di Nazareth. E’ stridente notare il contrasto, lungo il tratturo per cui discendiamo, fra un contadino druso con le sue vacche, e alcuni israeliani che sfrecciano su moto da cross.

Arrivati ai piedi del Carmelo ci aspetta il Kison, il celebre torrente presso il quale Elia uccise i profeti di Baal (1Re 18,40: c’è una collina che ancora ricorda, nel nome, l’episodio), e che, “torrente impetuoso”, travolse le truppe di Sisara (Gdc 5,21). E benché sia un fiumiciattolo, anche per noi il Kison non si mostra amichevole: per le piogge dei giorni precedenti si è gonfiato alquanto e P. Paco non riesce a trovare un posto dove guadare. Dopo varie esplorazioni conveniamo che l’unica soluzione sta nel prendere un cavalcavia in costruzione a un paio di chilometri di distanza e passare in questo modo all’altra sponda. Allunghiamo un po’ ma non abbiamo alternative.

Giunti dall’altra parte, ci ritroviamo su un enorme rettilineo in costruzione che taglia in due la piana di Esdrelon, e che ospiterà una ferrovia ad alta velocità: anche se poco bucolica, per noi è una pista facile verso la nostra mèta. Ai lati di questa striscia asfaltata, possiamo vedere un reticolo di tubi che si dirama per tutta la pianura: come mi dice F. Fabio, che ha studiato agraria, è un chiaro esempio dell’alta tecnologia agricola israeliana, che tramite la microirrigazione riduce al minimo gli sprechi d’acqua e riesce a rendere ancora più fertile questa piana. Camminiamo per una decina di chilometri, poi facciamo tappa per un piccolissimo villaggio, Kefar Yehoshua (“il villaggio di Giosuè”) dove sotto ombrosi eucalipti crocchi di israeliani si svagano e fanno picnic. Molti di loro vanno e vengono con le moto da cross viste prima o con altri veicoli da diporto, spensieratamente: è Shabbat!

Ripartiamo per la seconda metà della nostra marcia, passando accanto a una vecchia stazione dell’Orient Express (che passava di qui) e a stalle di allevamenti di bovini, dove noto all’interno degli enormi ventilatori in funzione, probabilmente per render tollerabile alle vacche l’eccessiva calura. A un certo punto P. Paco ci fa lasciare la strada asfaltata e ci dirige in mezzo ai campi: la situazione si fà più avventurosa, e il sole comincia a picchiare sulle nostre teste. Piccolo assaggio delle fatiche, non indifferenti, che Gesù e i suoi dovettero affrontare per predicare da un angolo all’altro della Palestina, come, ad esempio, in Samaria: “Gesù dunque, affaticato per il viaggio, sedeva presso il pozzo. Era circa mezzogiorno” (Gv 4,6). Bellissimo il senso spirituale di questo passo (“Quaerens me, sedisti lassus / redemisti Crucem passus – “nel cercarmi ti sei seduto stanco / salvandomi hai sofferto sulla Croce” come si canta nel Dies Irae), ma è bello coglierne anche il senso letterale…Comunque, ancor più bello è vedere come per una piccola fatica siamo subito ripagati con un piacevole dono che questa terra santa ci fa: il nostro sentiero comincia a immettersi tra immensi agrumeti di mandarini e pompelmi, dove la raccolta è stata già effettuata ma senza esaurire completamente i frutti degli alberi..che sono lì ad aspettarci invitanti e non ci pensiamo due volte! Il loro sapore è delizioso, e soprattutto dissetante. E non ci lasciamo scappare, oltre ai pompelmi, anche uno splendido cespo di verza, rimasto solo soletto nel suo campo, e che più tardi diventerà la nostra cena. Così ristorati ripartiamo per l’ultimo tratto di strada, fino al limitare di Nazareth, il cui centro raggiungiamo con una breve tratta in autobus.

Nazareth

A differenza di Haifa Nazareth è molto più palestineggiante. Un po’ più disordinata, ma non troppo, e piena di minareti che all’orario convenuto intonano dai loro altoparlanti preghiere in playback. Il bello è che queste si alternano, nel giro di mezz’ora, al suono delle campane delle nostre chiese, e a scoppi e spari di altri rumori festaioli: di matrimoni probabilmente, mi dice p. Paco. Qui soggiorniamo per due giorni, a 5 minuti a piedi dalla Basilica dell’Annunciazione, presso la casa dei piccoli fratelli di Charles De Foucauld: non avremmo potuto trovare sistemazione migliore e luogo più raccolto. E’ un ex-monastero di monache clarisse, con un ampio giardino interno (che imbarbariamo un po’ riempiendolo dei nostri vestiti appesi ad asciugare da ogni parte), lo stanzone dove dormiamo stipati per terra (l’ex-coro delle monache), e una deliziosa cappella, usata dai piccoli fratelli, di una semplicità e decoro toccanti. C’è anche una piccola reliquia del braccio di Charles. Tutto traspira modestia e umiltà, riflesso del clima di profonda pace che dovette rubare il cuore di Charles, qui venuto come pellegrino e poi rimasto per tre anni, come semplice inserviente delle monache. Dormiva in un ripostiglio degli attrezzi nel giardino, faceva qualche lavoretto per il monastero, pregava nella vicina Basilica dell’Annunciazione. Tutto nel nascondimento più totale, proprio come dovettero fare Maria e Gesù per la maggior parte della loro vita. P. Paolo, uno dei piccoli fratelli (sono tre in comunità), mi fa vedere la scrivania dove Charles scrisse molti dei suoi scritti spirituali e la maggior parte delle sue lettere. E proprio da queste ultime rubo, frutto ben più prezioso dei pompelmi, le parole che scrisse per raccontare il luogo qui vicino, dove Maria disse quel sì che ha cambiato la nostra vita, per sempre: “All’Angelus vado al convento francescano, là scendo nella grotta che faceva parte della Santa Famiglia (questa casa era addossata alla roccia e formata in parte da una piccola costruzione esterna; la costruzione esterna è a Loreto: la parte scavata nel macigno è qui)…Resto lì fino verso le sei del mattino dicendo il mio rosario e ascoltando le Messe che vengono dette in questo luogo sì adorabilmente Santo in cui Dio s’incarnò, in cui risuonò per trent’anni la voce di Gesù, di Maria, di Giuseppe; è profondamente dolce guardare queste pareti di pietra sulle quali si sono posati gli occhi di Gesù e ch’Egli toccava con le sue mani”.

La Basilica è retta dai francescani della Custodia della Terra Santa, che è una provincia dei Frati minori che si estende non solo in Israele e Palestina, ma anche Egitto, Giordania e altri luoghi del Medio Oriente: ritroveremo il loro stemma, con la quintuplice croce di Gerusalemme, pressoché in ogni luogo cristiano che visiteremo. Il luogo è sicuramente quello dell’’Annunciazione: la genuinità della tradizione che la colloca qui è attestata da un’iscrizione del I-II secolo d.C. recante il saluto angelico. La struttura racchiude, a mo’ di calice di fiore, la grotticina su descritta, dove file interminabili di pellegrini e turisti possono sostare per qualche attimo. Lo facciamo anche noi e, anche se è difficile raccogliersi in preghiera in un contesto pieno di flash e chiacchierii, recitiamo l’Angelus. Con il timore reverenziale di poter aggiungere “hic” al momento di pronunciare le parole “Et verbum caro factum est”. Ma senza attaccarcisi troppo però: la nostra beata Elisabetta della Trinità ci ricorda che grazie a Dio l’incarnazione continua, anche se certo in maniera diversa, nei tanti “hic”delle nostre vocazioni, nelle tante Nazareth delle nostre vite disordinate. Ed è proprio in virtù di ciò che i nostri padri carmelitani ebbero una particolare predilezione per il mistero dell’Annunciazione, se è vero che le dedicarono le più antiche chiese dell’Ordine, guardando a Maria, dolcissima madre e sorella, come modello esemplare di purificazione del cuore, in vista della domiciliazione di Dio in noi.

Per gli ortodossi invece (ma è una tradizione tardiva) l’Annunciazione non sarebbe avvenuta qui nella grotta ma presso una fontana, dove la Vergine sarebbe stata solita recarsi, e dove han costruito una chiesa frequentatissima dai pellegrini ortodossi, fra i quali i russi predominano nettamente. Michele, confratello postulante, ci fa notare che sui portoni della chiesa ortodossa sono appesi gli stessi annunci dei defunti che aveva visto nella parrocchia dell’Annunciazione: forse è un bell’esempio della pacifica convivenza che c’è, almeno qui, fra le varie confessioni religiose. Altro importante sito che abbiamo conosciuto, a due passi dalla Basilica, è la chiesa di S. Giuseppe, secondo la tradizione edificata sui resti della sua casa e della bottega dove Gesù imparò il suo mestiere. Come non ricordare questo passo della Gaudium et Spes? “Con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con intelligenza d’uomo, ha agito con volontà d’uomo ha amato con cuore d’uomo” (n°22). Non è casuale che, subito dopo l’incarnazione, venga il lavoro: qui lo vediamo topograficamente.

Il secondo giorno passato a Nazareth è dedicato alle nostre monache, che ci aspettano nel loro imponente Carmelo, dedicato alla Santa Famiglia, il quale fu costruito ai primi del ‘900 su diretto suggerimento di Gesù a Mariam Baouardy: la piccola grande araba, fattasi carmelitana scalza, che sarà canonizzata fra pochi giorni, il 17 maggio (riparleremo di lei quando giungeremo Betlemme, il suo monastero!). Le monache ci raccontano fiere di quest’origine, attestata anche dal titolo della via in cui è ubicato il Monastero, svettante su Nazareth, che reca il nome della santa. Anche qui troviamo donne giunte dai quattro angoli del pianeta: Cile, Filippine, Quebec, Hong Kong, Madagascar, Colombia, Korea, Francia, Perù…ma quel che colpisce è che, se per i frati carmelitani c’è un coordinamento centrale degli spostamenti, tramite la Curia Generale, per le monache non c’è nulla di tutto questo, ma ognuna è giunta in Terra Santa per una propria personalissima storia vocazionale: la monaca di Hong Kong, per esempio, in seguito a un pellegrinaggio della sua parrocchia a Nazareth ha capito che doveva fermarsi qui. Proprio come successe a Charles De Foucauld. Non sarà fuori luogo, allora, ricordare ancora le sue parole, che mi sembrano l’eco più bella e struggente di quanto è successo in questa città a una sconosciuta ragazza di 2000 anni fa: “Padre mio, io mi abbandono a Te, fa’ di me ciò che ti piace. Qualunque cosa tu faccia di me, ti ringrazio. Sono pronto a tutto, accetto tutto, purché la tua volontà si compia in me e in tutte le tue creature. Non desidero niente altro, Dio mio; rimetto l’anima mia nelle tue mani te la dono, Dio mio, con tutto l’amore del mio cuore, perché ti amo. Ed è per me un’esigenza d’amore il darmi, il rimettermi nelle tue mani, senza misura, con una confidenza infinita, poiché Tu sei il Padre mio”.

 

Padre Giacomo Gubert ocd

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