Alcuni giorni fa sono entrato in una libreria appartenente a una delle più grandi catene di distribuzione libraria, il cui riferimento culturale, una volta, si sarebbe detto di sinistra. In particolare uno degli scaffali ha attirato la mia attenzione. In bella mostra, perché sufficientemente distanti uno dall’altro per essere ben visti da tutti, vi erano esposti una serie di libri tutti dedicati ad un tema che mai mi sarei aspettato trovasse una speciale, e per me inusuale, attenzione in quella libreria. Si trattava di una decina di testi tutti dedicati al tema del silenzio. Tre di essi avevano come autore un monaco buddista, tre erano di taglio socio-culturale, due di matrice filosofica, uno di uno studioso di letteratura e l’ultimo di un sacerdote e di taglio biografico e spirituale.
Mentre tornavo a casa alcune riflessioni hanno fatto capolino in me. La prima era la felice constatazione che un tema che una certa e diffusa cultura ha sempre etichettato come riservato alla religione, o se si vuole essere più drastici, relegato tra le “cose” di Chiesa, finalmente usciva dal recinto in cui era stato ed è tuttora relegato.
La seconda, più complessa, che riassumo sbrigativamente così: «Quell’espositore di libri, con i suoi dieci volumetti sul silenzio, è un segno? Se sì, di che cosa precisamente?».
Come si può facilmente capire, un editore è un industriale che non vende automobili, computer o generi alimentari, ma carta stampata, libri. Ora se alcuni editori impegnano risorse economiche per far scrivere e pubblicare libri sul silenzio, non è forse perché essi «hanno fiutato» che questo tema è richiesto, certo senza tanto clamore, da un pubblico di lettori desiderosi di approfondirlo? Oggi nessun industriale investirebbe ingenti somme per costruire televisioni che trasmettono solo in bianco e nero perché il mercato non li richiede, e loro non li venderebbero. Per un editore le cose non vanno diversamente. Quale editore investirebbe denaro per pubblicare libri, il cui argomento non ha alcun interesse presso i potenziali lettori?
L’editoria è paragonabile ad un termometro che registra e segnala i bisogni, le domande che, anche in forme contraddittorie, agitano la nostra difficile convivenza sociale e la vita dei singoli. Per usare un’altra immagine, l’editoria svolge la funzione di un codice che decifra, rendendoli evidenti, gli elementi di novità, presenti in un preciso contesto socio-culturale e in un determinato arco di tempo. Quei dieci volumi sul silenzio, esposti in bella mostra in una grande libreria nel centro storico della città, registrano che il nostro frenetico e caotico stile di vita sta mostrando tutti i suoi limiti. La vita – dicono quei libri – non è un contenitore da riempire solamente di lavoro, di consumo, di comportamenti e risposte quasi seriali a bisogni naturali o artificialmente indotti. La vita cerca spazi di libertà, di creatività, di gratuità e di silenzio. Nel 1948, Max Picard, nel suo insuperato libro intitolato Il mondo del silenzio scriveva parole che oggi risuonano ancora più vere e illuminanti: «Il silenzio è oggi l’unico fenomeno “senza utilità”. Esso non conviene al mondo di oggi che è mondo dell’utile, non ha nulla di comune con questo mondo, sembra privo di qualsiasi scopo, non si presta allo sfruttamento». La presenza di quella decina di libri accomunati dallo stesso tema, è allora un segno, un sintomo che rivela il bisogno di cui sta soffrendo la nostra quotidiana esistenza. Questo bisogno risponde appunto al nome di silenzio.
Quando scriviamo con il computer, ed è ancora la seconda riflessione, le lettere di una parola pur disponendosi una dopo all’altra, sono separate da un piccolo spazio. Anche quello spazio bianco fa parte della parola, ha senso, e, si potrebbe anche dire, «parla». Viene qui alla memoria un detto della tradizione ebraica. Dice rabbi Lewi Yitzhaq: «Il chiarore che gli spazi bianchi diffondono sul nero delle lettere è anch’esso fonte di significato». La vita dell’uomo ha bisogno del silenzio, dello spazio bianco, non meno che della parola con le lettere che la compongono. Non possono esisterené il primo senza la seconda, né viceversa.
La terza considerazione sul silenzio prende spunto dal nostro contesto socio-culturale. Molte persone hanno oggi paura di questo spazio bianco, di questo silenzio. Nel loro immaginario esso è assimilato al vuoto, al nulla ed è per questo che lo temono. Non si esagera quando di afferma che salvo le ore del sonno, la vita di molti, soprattutto giovani, è completamente occupata, si starebbe per dire colonizzata, da parole, musica e immagini. Intere giornate scorrono senza un minimo distacco dal rumore, dal frastuono, subito o cercato che sia, dalla chiacchiera che invade e occupa ogni attimo di tempo a disposizione. Il famoso ammonimento della Scrittura, «c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare», sembra non avere qui più alcun senso.
L’esito antropologico di questa situazione, frutto certo di un lungo periodo di tempo, è stato ben descritto da Max Picard nel suo citato volume: «Nulla ha tanto mutato l’essenza dell’uomo quanto la perdita del silenzio. […]. L’uomo che ha perduto il silenzio non solo ha perduto col silenzio una sua proprietà ma è stato modificato in tutta la sua struttura».
Con sano realismo Giovanni Paolo II ha scritto che «l’uomo di oggi […] spesso non sa tacere per paura di incontrare se stesso, di svelarsi, di sentire il vuoto che si fa domanda di significato; […] Tutti, credenti e non credenti, hanno bisogno di imparare un silenzio che permetta all’Altro di parlare, quando e come vorrà, e a noi di comprendere quella parola». Oggi più di ieri, il silenzio, cercato e vissuto, resta lo spazio favorevole dove la questione radicale per l’uomo, quella della «domanda di significato» sulla vita, può continuare a essere posta. Chissà che la nostra decina di libri sul silenzio nella libreria al centro della città non sia servita anche a questo.
P. Aldino Cazzago ocd